La peggior malattia è la diagnosi

 

A colloquio con il signor Enzo R. di Milano: non so quanto possa essermi utile, ma anche a lei rivolgo la stessa domanda che, oramai, da anni rivolgo a tutti i medici e mica medici che incontro: è la diagnosi che fa la malattia o la malattia che fa la diagnosi? Io mi sono curato per molti anni per una forma di tachicardia che non mi permetteva di stendermi. Adesso mi stendo eccome, ma ho il mal di testa cronico e dolori molto importanti alle grandi articolazioni del lato destro del corpo. Nessuno mi toglie dalla testa che questi siano gli effetti avversi dei farmaci. Se smetto di prenderli mi passa tutto ma torna la tachicardia. Sono avvilito. È come avere la coperta corta, qualcosa rimane sempre fuori, per forza. Non penso che si possa fare qualcosa per me ma almeno voglio capire.


     Egregio signor Enzo, trovo che la sua sia una domanda acuta, frutto di una riflessione raffinata. Bravo. Non perdo tempo e passo subito alla risposta, tutto tranne che entusiasmante:
spesso è la diagnosi che fa la malattia.

     Non se la prenda con i medici, prime vittime di un sistema culturale meccanicistico (ed avvilente aggiungo) dove vige: a) la fretta, b) il tempo che è denaro, c) il bisogno malefico di dare un nome CERTO ai sintomi, d) altrimenti il paziente va in ansia perché non sa che cos’ha (anche questo, scusi tanto, ma va detto), e) la necessità di acquietare sintomi e dolori ad ogni costo.

     Risultato: si passa alla prescrizione. Uno o più farmaci, secondo un protocollo terapeutico, con l’obiettivo di guarire. Oppure farci sentire sani pur non essendolo del tutto.

     Farmaci che non tengono conto della persona che li assumerà, ma unicamente rispondenti ad un protocollo terapeutico collaudato e condiviso. E chi osa contestarlo? Nel frattempo sparisce un sintomo e ne compare un altro.

     Se non stiamo attenti, se ci distraiamo solo un po’, dopo ics anni ci ritroviamo ad assumere un numero di farmaci spaventosamente alto. È un po’ quello che succede agli anziani, preoccupati a gestire il loro quotidiano in relazione agli orari in cui prendere le pastiglie. Poveri anziani, tenerissimi nel loro modo di essere ligi a quanto prescritto “dal dottore”. Ma torniamo alla nostra diagnosi.

     A tale proposito non dimenticherò mai il caso di una bella e giovane signora di Treviso, di professione infermiera, che venne a trovarmi qualche anno fa. Aveva un dolore addominale importante, fisso, localizzato in un punto preciso. Assumeva farmaci per il Morbo di Chron, che le era stato diagnosticato qualche tempo prima e per il quale, come tutte le malattie croniche, aveva diritto all’esenzione del ticket.

     Io mi sono fatta descrivere molto bene i sintomi attuali ed anche quelli che l’avevano portata, a suo tempo, a fare tutti gli accertamenti che portarono alla diagnosi di Morbo di Crohn. Non entro nei dettagli ma affermo con forza che i sintomi non mi sembravano granché corrispondenti alla diagnosi. Tuttavia è pacifico che io potevo avere preso un granchio.

     Quello che invece non ha sbagliato è il riso integrale: messo obbligatoriamente a dieta la signora, già dopo i primi giorni il dolore è svanito nel nulla. Come se non fosse mai esistito. E' stato il riso che ha fatto il miracolo? Oppure il morbo di Crohn che non era tale? Non si è mai visto il riso guarire una malattia così grave. E' più facile pensare, semplicemente, che la malattia non era tale.

     Diagnosi sbagliata? Direi di no, tutto era stato fatto con scrupolo, a tale proposito ricordo che la signora è infermiera e non ha lasciato niente al caso.

     Riso con potere terapeutico più forte di un farmaco? Lo so che è difficile pensarlo. E' più facile pensare ad una diagnosi sbagliata.

 

     Ecco, questo è un buon esempio di diagnosi che fa la malattia. E dal quel momento in poi parte una sorta di status di MALATO. È la consapevolezza di non essere sano. Cioè di essere ammalato. Quindi bisognoso di cure (farmaci).

     Morale della favola? Se hai un disturbo, di qualsiasi natura esso sia, è bene andare a fare un giro dal nutrizionista, perchè la probabilità che il disturbo sia scatenato (o aggravato) dal cibo è elevatissima. Potrà anche sembrare incredibile, ma questo è quanto.

     Ad ogni buon conto, nel post-dieta si aprono due strade: 1) se il disturbo dipende unicamente dal cibo, il sintomo sparisce; 2) se il disturbo è aggravato dal cibo, il sintomo si attenua ma non sparisce. Si può attenuare anche di molto, pur non sparendo. A questo punto si procede alle indagini più accurate.

     E proprio perché l’organismo è stato pulito dalla dieta che le indagini diagnostiche risulteranno più semplici e chiare alla lettura dei tecnici esperti. Inoltre ne basteranno anche meno, proprio perché il disturbo si mostrerà con chiarezza. La probabilità di sbagliare si abbatte notevolmente, pur sempre rimanendo: siamo umani.

     Anzi no, siamo disumani. Perché ci affidiamo ciecamente a quanto ci dicono gli strumenti diagnostici, visti sempre come infallibili, invece che affidarci all’intuito, all’osservazione e all’esperienza.

     Dimenticandoci miseramente che la Medicina non è una scienza ma un’arte: l’arte dell’interpretazione dei segni e dei sintomi.

     La promessa tecnologica ha creato un inganno di dimensioni planetarie: non c’è nessuna macchina che si può sostituire all’esperienza meravigliosa del dialogo col paziente. È come Alice che entra nel mondo delle meraviglie.

     E' come entrare in una stanza, ogni volta diversa. I dettagli straordinari che il paziente è in grado di dare di se stesso sono uno strumento insostituibile ed impareggiabile.

     Certo non è sufficiente: dall’altra parte serve un orecchio attentissimo e molto allenato. Se a tutto questo sommiamo un’indagine diagnostica fatta a ragion veduta, otteniamo salute e risparmio della spesa pubblica. Utopia? No, perché le persone ben informate riflettono e agiscono. Chiedete, gli strumenti vi saranno dati.